A bordo della Hope
Il calore che si sprigionava dal riscaldamento centralizzato aveva un odore di ozono secco e penetrante come quello di un elettrodomestico appena andato in corto circuito. Il vecchio impianto tuonava quando l’acqua entrava in circolo nei tubi scricchiolanti, con dei colpi così forti che Aggie, già in preda alla tensione, saltava ogni volta che uno dei tubi emetteva quegli scoppi simili a spari. Fuori dal boccaporto, il sole del tardo pomeriggio se ne stava nascosto dietro strati di nubi e da ciuffi di nebbia. Una pioggia gelida sferzava i vetri, spinta dal vento impietoso del circolo artico. Il termometro digitale appeso accanto alla porta della cabina diceva che la temperatura esterna era di 3 gradi sotto zero, ma con quel vento sarebbe scesa ancora.
Era solo la metà di ottobre, tuttavia l’inverno stringeva già la sua morsa attorno alla terra del sole di mezzanotte.
All’interno della cabina la temperatura era di ventuno gradi, ma ad Aggie sembrava molto più alta. Aveva appena finito i suoi cinquanta sit-up e per lo sforzo gli addominali le tremavano. Aveva fatto due ore di esercizi di isometrica, aerobica e step con i pesi alle caviglie e aveva eseguito duecento affondi, come li aveva imparati nel corso di scherma, concentrata al punto che le sembrava di sentire la lama immaginaria che colpiva il suo avversario. La sua pelle luccicava per il sudore che le incollava i capelli alla testa, i pantaloncini e la maglietta aderivano al suo corpo come una seconda pelle.
Alzandosi per iniziare gli esercizi di raffreddamento, vide la sua immagine riflessa nello specchio. Era abituata a vedersi dopo l’esercizio fisico, e non era preoccupata dei suoi capelli, dei vestiti o del sudore che le gocciolava dal mento. Ma i suoi occhi… bruciavano ancora di fredda furia smeraldina. Quelle ore di attività non avevano neanche lontanamente placato la sua rabbia.
“Uomini.” Disse sputando a se stessa nello specchio.
Aveva passato la vita a dimostrare di essere indipendente, accettando tutte le sfide, affrontandole e superandole quasi sempre con una certa facilità. Si era conquistata la sua laurea, così come quel corpo asciutto e tonico era il frutto del suo lavoro, e la sua personalità si era forgiata in anni passati a lottare contro l’influenza dei suoi genitori e delle loro vite devastate. Si era guadagnata il rispetto che meritava, pagando con il tempo e l’impegno. Ma nelle ultime ventiquattro ore era stata trattata come un pezzo di arredamento, o come un animale domestico.
“Affanculo tutti e due!”
Jan, con quelle sparizioni misteriose e con il suo delirio di rendere il petrolio ripugnante al punto che nessuno avrebbe mai più voluto usarlo. Mercer con il suo modo paternalistico di ordinarle di lasciare l’Alaska per la sua incolumità. Non era il diciannovesimo secolo, e lei non era una piagnucolante damigella da salvare. Si comportavano entrambi come se sapessero cosa era giusto, come se i suoi desideri e la sua opinione non contassero nulla. Cristo!
Tecnicamente, Jan la sera prima l’aveva violentata. L’uomo che aveva chiesto la sua mano l’aveva penetrata contro la sua volontà senza preoccuparsi minimamente dei suoi sentimenti. Per quello che gliene importava, avrebbe potuto essere una bambola gonfiabile, un oggetto con cui masturbarsi. Credeva di amarlo, i suoi pensieri e i suoi sentimenti erano così simili ai suoi, ma ora capiva per la prima volta quanto lui fosse diverso. Aveva sempre visto il suo egocentrismo, e ora capiva che ne era completamente prigioniero. Pensare a lui la faceva sentire a disagio, la stessa sensazione di un millepiedi che le camminava sul corpo.
E che dire di Mercer e del suo assalto mattutino al testosterone, con tanto di armi spianate e ordini militareschi come se stessero facendo irruzione in un aereo in mano a dei dirottatori? E delle sue minacce di far arrestare tutti? Avrebbe dovuto farlo, tutti gli attivisti a bordo della Hope desideravano andare a finire in prigione a causa del loro credo. Quello era solo un altro modo per trattarla con condiscendenza. Uno scappellotto dato alla riccona ambientalista. ‘Stai attenta, Aggie.’ Le sembrava di sentire la sua voce. Adesso stai giocando con i grandi e non voglio che tu ti faccia male.
Cazzo, sono grande anch’io, pensò inviperita. So quello che faccio. Mancava un mese al suo trentaduesimo compleanno e lui la trattava come una bambina di sei anni. Troppi uomini nella sua vita avevano assunto quello stesso atteggiamento, trattandola come un soprammobile prezioso da proteggere a tutti i costi. Soprattutto suo padre, che aveva nascosto i suoi problemi con sua madre fino a che non era diventato troppo tardi, temendo che un divorzio o una separazione le avrebbero fatto troppo male. Che cazzata. Come se il suicidio di sua madre, invece, l’avesse lasciata indifferente.
E cosa diavolo aveva voluto dire Mercer quando aveva detto: “Vorrei essere capace di dirti che anch’io ti odio, ma non ci riesco?”
Con suo grande stupore, Aggie vide nello specchio che i suoi occhi si erano addolciti, la tensione del suo viso era diminuita, e che il suo sguardo accigliato stava quasi per trasformarsi in un sorriso.
Sapeva cosa voleva dire.
“D’accordo, dottor Mercer, avrai quello che vuoi” disse ad alta voce, con un tono duro come l’acciaio. “Me ne vado. Lascio l’Alaska e lascio Jan e, soprattutto, lascio te. Ma non prima di aver detto la mia e di aver messo fine a questa stupida cotta che avrebbe dovuto sgonfiarsi già parecchi anni fa.”
Quando lei e Jan avevano parlato di matrimonio, lui non le aveva regalato un anello con un diamante. Le aveva spiegato che siccome non poteva tollerare la devastazione causata dallo sfruttamento minerario non avrebbe contribuito ad alimentare l’industria estrattiva e il concetto populista che “un diamante è per sempre”. L’anello di fidanzamento che le aveva dato era di corno, il che sembrava perfettamente appropriato per le convinzioni che condividevano. Frugò nella valigia e tirò fuori la scatoletta di velluto, esagerata rispetto al gingillo che conteneva.
“Pidocchioso di merda!” disse acida, e lasciò la scatoletta sulla scrivania di Jan, con il coperchio sollevato in una metaforica risata.
Si fece una doccia e si vestì, nascondendo i capelli bagnati sotto un cappellino da baseball. Buttò un po’ di cose in uno zaino, ignorando la maggior parte dei vestiti e delle cose “essenziali” che si era portata in Alaska. Avrebbe comprato quello che le serviva a San Diego, a casa di un’amica dell’università. Aggie voleva lasciarsi tutto alle spalle: Jan, Mercer, la PEAL, quell’anno sprecato. Aveva vissuto a mille ed era ora di tornare alla normalità.
Aggie sapeva come si chiamava l’hotel in cui alloggiava Mercer perché aveva trovato la ricevuta nella tasca della sua giacca. Pensò di chiamarlo, ma poi optò per l’effetto sorpresa.
Mercer stava appoggiato contro la testiera del suo letto d’albergo, guardando una splendida partita di football alla televisione, Florida contro Georgia. Era il terzo tempo, il punteggio era di quattordici a dieci, con entrambe le difese impegnate in ottimi lanci che arrivarono vicini a realizzare un calcio piazzato. Aveva una bottiglia di birra a portata di mano sul comodino, gocciolante di condensa.
Bevve un sorso di birra e diede un’occhiata al suo orologio, sperando che quello che restava di quel pomeriggio ormai svanito trascorresse senza sorprese. Da quando avevano fatto irruzione sulla Hope, Mercer non si era mai allontanato dal telefono, desiderando ardentemente che non squillasse ma sapendo che lo avrebbe fatto.
Aveva di nuovo quella sensazione. C’era decisamente qualcosa che non andava. Il segnale più evidente era che Jan Voerhoven non fosse a bordo della Hope, ma ce n’erano molti altri, cose che non riusciva proprio a spiegarsi. Mercer ripensò a tutti i collegamenti e ai piccoli dettagli che lo portavano a esserne convinto. Quel genere di presentimenti era inutile e pericoloso, ma faceva parte della sua natura continuare a ragionare sui problemi, a prescindere dalla facilità della soluzione.
Tutto era cominciato con il contrabbando di tonnellate di azoto liquido. Perché? Chi avrebbe voluto farlo e con quale scopo? Secondo, il gruppo ambientalista più radicale del mondo era già in Alaska e il loro leader sembrava sparito in una missione avvolta nel mistero di cui nemmeno la sua ragazza sapeva niente. E poi c’era Ivan Kerikov, un terrorista internazionale o, più precisamente, un mercante del terrore. Un uomo leale solo con se stesso, ma che sembrava avere risorse illimitate. Anche lui era in Alaska, con un paio di arabi. Qual era il loro ruolo in tutta quella storia?
E cosa c’entravano un ex agente del KGB, un paio di scagnozzi arabi e un gruppo ambientalista con l’azoto liquido alla vigilia dell’apertura del Rifugio per la Fauna Artica? Ognuno di questi elementi era sufficiente a far riflettere, ma c’era dell’altro.
Le confidenze di Aggie su suo padre, prima di tutto. Aveva affermato che Max Johnston sapeva a che ora lei si era presentata a casa di Mercer, la stessa ora in cui era partito l’attacco che solo grazie all’arrivo di Harry White in quel preciso istante non si era trasformato in un massacro. Max era forse coinvolto in qualche modo? E non era sua quella petroliera che era arrivata in ritardo al terminal di Alyeska per caricare il greggio di Prudhoe Bay? Forse anche quello significava qualcosa?
Mercer si spostò sul letto per raggiungere il telefono. Voleva chiamare Dave Saulman a Miami. Voleva che il suo amico avvocato esperto di diritto della navigazione lo aggiornasse su quella petroliera. Era un filo sottile quello che stava seguendo, forse un ago in un pagliaio, ma a volte l’ago serviva a ricucire tutta la tela. Stava per sollevare il telefono quando sentì bussare energicamente alla sua porta. Si alzò, e quando aprì fece un balzo all’indietro. Aggie Johnston era lì con i suoi jeans, un maglione e la giacca a vento verde militare. Aveva un cappellino da baseball in testa, con dei delicatissimi ciuffetti di capelli che le scendevano sulle orecchie. Teneva sottobraccio il suo giaccone di pelle. Dietro l’espressione inferocita lui intravide un’emozione più profonda, un luogo segreto di cui lei stessa non conosceva l’esistenza e che certamente aveva cercato di tenergli nascosto. Sapeva che Aggie stava soffrendo e che aveva paura. Il cuore di Mercer si mise a battere all’impazzata.
La voce di Aggie era brusca. “Ho un paio di cose da dirti.”
“Davvero?” rispose lui cercando di mantenere un tono neutro.
Aggie si fece strada nella stanza, chiudendo la porta dietro di sé. “Voglio che tu sappia che lascio l’Alaska e che lascio Jan.”
“Perché?” Mercer sorrise, incuriosito.
“Perché cosa? Perché me ne vado?”
“No, perché me lo dici?” e il suo sorriso si allargò, vedendo le emozioni contrastanti che segnavano il viso di Aggie. Era chiaro che non si aspettava quella domanda.
“Perché sì” rispose Aggie, confusa. “Ne ho abbastanza. Di Jan e del suo ego e della sua condiscendenza, e di te e dei tuoi teatrali gesti eroici.”
“Non sono gesti teatrali” rispose Mercer ironico.
“Cazzo, Philip, ma per te è tutto uno scherzo?” Sentendosi chiamare per nome rimase sorpreso, e anche lei. E la stanza si trasformò in un luogo molto intimo, pieno di un’emozione quasi palpabile.
“No, Aggie.” La sua voce si fece tenera come non era mai stata. “Non credo che Kerikov sia uno scherzo, né che lo sia il tuo ex fidanzato. Non credo che l’attentato alla mia casa sia uno scherzo, né che lo siano le morti di Howard Small e dei suoi cugini. Niente di tutto questo è uno scherzo. È quello che ho cercato di dirti.”
“E noi?” chiese Aggie in un sussurro quasi impercettibile.
Adesso era lui a essere sorpreso da quella domanda imprevista.
Prima che riuscisse a rispondere, lei si voltò verso la porta, spostando lo sguardo altrove.
“Non importa” disse. “Non importa. Per me è tutto finito, Jan, la PEAL e anche la mia cotta per te.”
Stava per aprire la porta quando Mercer la chiamò per nome. Non poteva lasciarla andare via, e il desiderio rese la sua voce profonda e suadente. Era la prima volta che nessuno di loro due era sulla difensiva. Erano l’uno di fronte all’altra, non avversari in battaglia, ma solo un uomo e una donna pronti ad ammettere una forte attrazione, due menti che si univano così come avrebbero voluto farlo i loro corpi.
Aggie attraversò la stanza, togliendosi la giacca. Si strinse a lui con una tale forza che lo spinse contro il letto, tenendogli la testa con le mani. Avvicinò la bocca alla sua e lo baciò selvaggiamente.
Le braccia di Mercer le avvolsero il corpo, mentre una mano sfilava la maglietta dai jeans e l’altra scivolava a cercare la pelle liscia della sua schiena salendo fino a posarsi sulla sua nuca sottile. Lei si strinse forte a lui, come un animale spaventato che cerca rifugio nella tana, anche se la sua lingua morbida e vellutata non era affatto timida e spaventata mentre esplorava la sua bocca.
I loro movimenti erano febbrili, le mani si muovevano senza sosta spinte dal desiderio di scoprire, carezzare, possedere. Senza neanche rendersene conto caddero sul letto, sprofondando nel piumone che avvolse i loro corpi, mentre le bocche si allontanavano solo per emettere piccoli gemiti e respiri affannati.
“Perché?” chiese Mercer con rispettosa curiosità.
“Taci. Questo è quello che vogliamo tutti e due.” E gli afferrò le natiche, attirandolo verso di sé.
La maglietta di Aggie era infagottata sotto la sua gola. Si liberò dalla stretta di lui solo per i secondi necessari a toglierla. Non portava il reggiseno, e vedendo i suoi seni Mercer sentì aumentare l’eccitazione. Come se fossero dotate di vita propria, le sue mani reclamarono quello che desideravano. Appoggiò un palmo sul seno sinistro, avvolgendolo completamente, con le dita che si allungavano a sfiorare le costole. Aveva seni piccoli, quasi infantili, con capezzoli rosa grandi come monetine.
Era stato sempre molto consapevole delle sue mani, quando le posava sul corpo di una donna. Erano callose e segnate da una vita di lavoro manuale. I palmi erano coriacei come la pelle dei rettili del deserto. Le dita erano indurite, le articolazioni sembravano gli snodi di un’armatura. Quando la sua pelle sfregò sul seno di Aggie lei interruppe il suo bacio e gridò. Mercer ritrasse subito la mano temendo di averle fatto male, ma Aggie la afferrò e la posò sul punto più sensibile della sua carne, aumentando il ritmo in sincronia col suo respiro affannato.
“Oh Dio” gemette sulla bocca di lui.
Aggie gli prese la mano spostandola dal suo seno alle cosce. Attraverso il tessuto dei jeans, Mercer senti l’umidità del suo corpo. Cominciò a sganciare i bottoni dei jeans abbandonandosi completamente, annullando tutti i pensieri e lasciando spazio solo al desiderio. Mentre le slacciava i pantaloni, la sua bocca si posò sul suo seno, scivolando umida sulla pelle e facendo indurire il capezzolo fino a farlo sembrare un lampone maturo, dolce ed eccitante. Finalmente slacciò l’ultimo bottone. Gli slip erano un triangolino di seta inzuppato dell’umore dell’eccitazione.
Squillò il telefono, invadente come la campana di una chiesa.
Mai come in quel momento Mercer avrebbe voluto ignorarlo, ma sapeva che non poteva farlo. Allontanò Aggie rabbiosamente, guardandola mentre il telefono trillava di nuovo. L’espressione confusa del suo viso era quanto di più doloroso lui avesse mai visto. Si costrinse a ignorarla e afferrò il ricevitore. “Pronto.”
“Mercer, sono Mike Collins, dal terminal.” Mercer visualizzò il capo della sicurezza di Alyeska, con il suo sguardo pacifico da ex poliziotto e la lunga cicatrice da vecchio soldato.
“Stavo aspettando la sua telefonata” disse secco, guardando Aggie che si rivestiva, dandogli la schiena.
“Andy Lindstrom lo sospettava. Qui è scoppiato l’inferno. Abbiamo dei disordini al deposito principale di Fairbanks e tutti i computer del terminal sono andati in tilt. Andy mi ha chiesto di chiamarla, dato che lei sospettava che stesse per succedere qualcosa. Ha qualche idea?”
“Arrivo. Avete già chiamato le autorità?” Mercer guardò Aggie che si infilava la giacca. Lo guardò per un secondo e poi sparì, tirandosi dietro la porta. Mercer non riuscì a fermarla, e capì che lei non avrebbe voluto. Aggie aveva scelto, mentre lui non aveva scelta. Con grande tristezza riportò la sua attenzione a Collins.
“Non ancora, almeno non per quel che riguarda il problema dei computer. Sono stati i poliziotti a informarci dei disordini di Fairbanks. Sembra che le proteste all’ingresso principale del deposito siano sfuggite di mano. Secondo la polizia locale non si tratta di membri della PEAL ma di attivisti per i diritti dei locali che gridano alla violazione della sacra terra.”
“Non si dia pensiero per i disordini, non sono importanti.” Mercer teneva il telefono tra la spalla e la testa, e con le mani si allacciava gli scarponi. Diede a Collins il numero personale di Dick Henna. “Lo chiami, gli dica chi è lei e gli dica che voglio che allerti la base aerea di Elmendorf.”
“E perché? Mi ha appena detto che i disordini non sono importanti, solo una manciata di amici degli eschimesi che fanno un po’ di casino. Ho già fatto partire alcuni dei miei uomini della sicurezza da una postazione più a monte sulla Tapline. Li faremo sgombrare nel giro di un paio d’ore.”
“Già. E mentre voi date la caccia ai fantasmi, Kerikov sferra il suo attacco da un’altra parte e i vostri uomini non saranno abbastanza vicini da tenergli testa” disse Mercer secco. “Arrivo tra venti minuti.”
Mise in moto il Blazer e vide che nel parcheggio non c’era traccia di Aggie. E a meno che non fosse andato a cercarla più tardi, sapeva che non l’avrebbe rivista mai più. Sentì un vuoto allo stomaco, anche se sapeva che probabilmente era meglio così.
Aggie aveva aspettato nello stanzino della macchina del caffè, osservando Mercer dietro un velo di lacrime mentre se ne andava. Restituire l’anello a Jan aveva rappresentato un gesto di chiusura definitiva, la fine della loro relazione e del suo coinvolgimento con la PEAL. Voleva che succedesse anche con Mercer, voleva un ultimo momento insieme per dare risposta a tutte le domande che aveva su di lui e su loro due. Ma non era stato possibile. Erano di nuovo sospesi in quel limbo, né amanti né rivali. Ora sapeva che era venuta lì per stare con lui e dare sfogo ai suoi sentimenti. Ma siccome non era stato possibile, i suoi sentimenti erano ancora più forti di prima. In qualche modo, il fatto di non aver fatto l’amore fino a quel momento le aveva permesso di protrarre la possibilità di avere una relazione, ma vedendolo scendere nell’atrio, con quel passo deciso che lo portava sempre più lontano da lei, provò un dolore sordo al petto e scoppiò finalmente a piangere.
Aggie aspettò qualche altro minuto prima di lasciare l’hotel, accertandosi che Mercer se ne fosse andato. Il parcheggio era quasi deserto. C’erano un furgone scuro parcheggiato vicino all’uscita e un pickup distrutto abbandonato vicino all’ingresso dell’albergo. L’auto che Aggie aveva preso a noleggio era accanto al furgone, col muso rivolto verso l’edificio.
Prese le chiavi dalla tasca, con l’ingombrante portachiavi che si impigliava mentre cercava di tirarlo fuori. Concentrata sulla serratura dell’auto, non si accorse che il motore del furgone era acceso. Appena il portellone laterale del furgone si aprì scorrendo a fine corsa, istintivamente Aggie mise la chiave all’interno del pugno lasciandola sporgere tra le dita, come aveva fatto tante volte la sera quando si avviava a recuperare la sua auto a Washington.
Dal furgone uscirono due figure. Si spostarono in sincronia, intrappolando Aggie in mezzo a loro, bloccandola tra i due veicoli. Lei si volse di scatto, trovandosi entrambi gli uomini davanti in una frazione di secondo, agitandosi nel realizzare che era stato tutto accuratamente preparato. Uno degli uomini teneva in mano uno straccio bianco e stava attento a non avvicinarselo al corpo, come se contenesse qualche cosa di terribile. Aggie riconobbe l’uomo che l’aveva molestata al bar la sera prima. Diede le spalle all’assalitore sconosciuto per concentrarsi su quello che le era familiare. Appena si voltò, l’altro la assalì da dietro, afferrandole le braccia e bloccandogliele dietro alla schiena immobilizzandola.
Con uno scatto del piede lo colpì in mezzo alle gambe e appena lui lasciò la presa per una frazione di secondo lei si divincolò e gli sferrò una poderosa gomitata alla mascella. L’aggressore barcollò appoggiandosi al furgone, non proprio svenuto ma comunque stordito. Si formò un piccolo spazio tra lui e l’auto, e Aggie si precipitò tentando di scappare.
L’uomo con lo straccio la raggiunse e con una mano d’acciaio le afferrò la spalla, facendo penetrare le dita nella carne alla base del collo. La sua forza era tale che Aggie rimase quasi paralizzata dal dolore. Cercò di divincolarsi ma la pressione aumentò implacabile, facendola gridare e costringendola a cadere in ginocchio.
Davanti ai due veicoli si aprì la finestra di una camera e un uomo a torso nudo mise fuori la testa. Aveva un volto un po’ rubizzo ma gentile, puntinato dalla barba grigia. Il petto villoso era nero e folto come la pelliccia di un visone.
“Hey, voi, cosa state facendo?” chiese con voce strascicata.
Abu Alam mollò Aggie, lasciò cadere lo straccio intriso di cloroformio e voltandosi di scatto scoprì il fucile SPAS-12 che teneva sotto la giacca. Con un gesto fulmineo lo impugnò e lo puntò, liberandolo dal velcro che lo fissava alla spalla. Il primo colpo mandò in frantumi il vetro della finestra, ma non centrò quell’ospite troppo curioso. Il secondo, così vicino al primo che il rumore dei due spari si sovrappose, colpì l’uomo proprio in faccia, mandandogli la testa all’indietro come se fosse stato un fantoccio, schizzando il contenuto del cranio contro le pareti della stanza d’albergo.
Un momento stava affacciato alla finestra, moderatamente preoccupato, e il momento successivo era un cadavere senza testa che colava sangue scuro da un moncone sbrindellato che un tempo era stato il suo collo. Alam rimise il fucile Franchi a canna liscia sotto la giacca di pelle e tornò a occuparsi di Aggie. Aveva il viso bianco, con le labbra che le tremavano mentre giaceva ai suoi piedi.
“Entra nel furgone” le ordinò Alam mentre raccoglieva lo straccio con l’anestetico.
Aggie non riusciva a muoversi. Guardava sopra la spalla di Alam allo spazio che fino a poco prima era occupato da un essere umano. E mentre Alam si avvicinava, vide che la sua bocca sottile si contrasse in una ripugnante smorfia di bramosìa. Aggie si riprese e tentò di alzarsi. L’uomo che aveva colpito poco prima si era rimesso in piedi e l’aveva afferrata di nuovo, stavolta tenendole bloccate le braccia e le gambe. Aggie sentiva l’erezione dell’uomo spingere contro le sue natiche. Abu Alam le premette lo straccio sulla bocca e i suoi occhi verdi si dilatarono.
Nonostante tutti i suoi sforzi, non riuscì a opporsi al cloroformio nauseante che sapeva di ospedale e la sua mente cominciò ad annebbiarsi mentre il corpo perdeva la sensibilità. Non sentiva neanche le dita ruvide di uno dei due uomini che le sfregavano l’inguine. Era come un manichino, un’effigie di se stessa che poté essere facilmente depositata all’interno del furgone, con le gambe aperte in modo che Abu Alam, il ‘padre del dolore’, potesse guardare il suo sesso protetto dal tessuto dei jeans mentre il suo assistente guidava.
Quando arrivò al centro operativo del terminal di Alyeska Mercer si era aspettato di trovare un gran casino, o almeno una sommossa in scala ridotta. Invece nel parcheggio davanti all’edificio squadrato non c’era nessuno, neanche i camion rossi di Alyeska che erano sempre lì, e i grandi altoparlanti piazzati sul tetto tacevano. La torre radio montata in cima all’edificio era completamente nascosta dalla nebbia e dietro il centro operativo l’impianto e i camini per il recupero del vapore alti cento metri si vedevano unicamente grazie alle luci lampeggianti di sicurezza. All’interno dell’edificio i corridoi erano deserti e insolitamente silenziosi. In quel silenzio il rumore degli scarponi era forte e invadente. Mercer si diresse verso la sala di controllo.
Andy Lindstrom, il responsabile operativo del terminal, stava in piedi davanti allo schermo azzurrognolo di una delle console di comando, con una tazza di caffè appoggiata sulla scrivania in finto legno. Seduto davanti a lui c’era un ragazzo con una dolcevita nera con le spalle coperte di forfora. La faccia rossastra e butterata era inchiodata allo schermo su cui scorrevano infiniti codici. Mercer notò che le lenti dei suoi occhiali erano luride e che le estremità delle stanghette erano rosicchiate.
Mike Collins era al telefono, con uno scarpone appoggiato su una delle sedie nere cromate e un sigaro enorme stretto tra i denti. La camicia era macchiata di sudore sotto le ascelle e la cicatrice che aveva sulla guancia era viola scuro. Lindstrom e l’informatico ignorarono l’aggressione verbale di Collins contro chiunque fosse all’altro capo del filo.
“Vaffanculo, Ken. Non ti sei mai fatto problemi a chiedere in prestito i nostri mezzi e persino i nostri uomini quando ti sei trovato in mezzo a una crisi, perciò non venire a dirmi che i disordini all’interno del deposito sono una questione interna e che la polizia di Stato non c’entra, chiaro? Alcuni dei miei uomini sono già partiti dalle stazioni di pompaggio 5 e 6 e gli ci vorranno diverse ore per arrivare. Secondo i miei agenti sul posto la polizia di Fairbanks è già al lavoro, ma le loro squadre sono in minoranza rispetto ai manifestanti.” La cicatrice sulla guancia divenne rossa e gli occhi assunsero un’espressione più dura. “Lo so che non vi hanno chiamati per chiedervi sostegno. Per Dio, perché credi che ti stia chiamando io? Sono io che ti sto chiedendo aiuto, porca troia. Mi stai ascoltando o no? Abbiamo bisogno di aiuto al deposito, Ken, e ne abbiamo bisogno immediatamente!”
Collins lasciò riagganciò il ricevitore con un fracasso liberatorio e si voltò verso Mercer, pieno di rabbia e di frustrazione. “E pensare che sono stato anch’io un poliziotto come lui, fissato con le regole e le procedure. Che casino, cazzo.”
“Cosa sta succedendo?” chiese Mercer mentre si sfilava il giaccone e lo buttava sul tavolo in fondo alla stanza.
“Di tutto.” Andy Lindstrom rispose al posto del capo della sicurezza. “Mercer, questo è Ted Mossey, il nostro responsabile informatico interno, anche se in questo momento si direbbe che le macchine gli stiano dando del filo da torcere.”
Mossey non accennò ad alzarsi o a stringere la mano a Mercer, ma gli diede un’occhiata al di sopra della spalla. Mercer lo riconobbe, lo aveva visto la sera prima al bar durante la rissa tra i lavoratori del terminal e gli attivisti della PEAL, anche se non era rimasto coinvolto. Capì che anche Mossey lo aveva riconosciuto, perché il ragazzo effeminato si voltò di nuovo con troppa rapidità, tornando a immergersi nei suoi computer. Per un secondo Mercer ebbe la sensazione che Mossey avesse paura di lui.
Che diavolo di storia era?
Lindstrom accese una sigaretta con il mozzicone di quella appena finita. I suoi occhi arrossati e umidi tradivano l’enorme stanchezza. “Si direbbe che stia andando tutto a puttane, qui. Stamattina presto le guardie della sicurezza hanno trovato quattro persone all’interno del recinto del deposito di Fairbanks, accanto al carico di materiale in partenza per North Slope. Hanno fermato gli intrusi e chiamato immediatamente la polizia. Poi, verso le dieci di stamattina, la PEAL ha tenuto una conferenza stampa a Fairbanks dichiarando che stiamo trattenendo illegalmente numerosi loro attivisti. Ci accusano di averli catturati in strada, come gli squadroni della Gestapo, cazzo. E a quei coglioni dei giornalisti non è certo venuto in mente di chiamarci per sapere come sono andate veramente le cose. Si sono accontentati della cartella stampa della PEAL. Nel giro di un paio d’ore si sono radunate duecento persone fuori dai cancelli del deposito. All’inizio la protesta era pacifica, ma adesso sta diventando una vera sommossa, con tanto di lanci di bottiglie oltre la recinzione, manifestanti sdraiati in mezzo alla strada di accesso, le solite stronzate. E se non bastasse, i manifestati radunati non sono neanche della PEAL. È un miscuglio di gruppi, quasi tutti sostenitori dei diritti dei nativi e dimostranti antinucleari, che non c’entrano un cazzo di niente, ma appena qualcuno comincia a fare un po’ di casino tutti gli squinternati della regione non vedono l’ora di aggregarsi. Sono gruppi che si moltiplicano e mutano più velocemente di un virus.”
“C’è qualche collegamento con il problema dei computer?” chiese Mercer.
“No” rispose stanco Lindstrom. “Il blocco dei computer è il problema numero due della giornata. Un paio d’ore fa tutto il sistema è andato in crisi. È tutto completamente bloccato: tastiere, dischi rigidi, tutto. Ted sta cercando di capire cos’è successo.”
“Cosa ne pensi?” chiese Mercer rivolto alle spalle da avvoltoio di Mossey.
“Un blocco come questo potrebbe essere causato da un’anomalia nella configurazione, oppure un picco di potenza potrebbe aver fritto il sistema operativo.”
“Potrebbe essere stato un hacker secondo te?”
“No, si tratta di un problema interno. I protocolli di sicurezza avrebbero individuato qualsiasi intrusione e l’avrebbero bloccata automaticamente, rintracciandola così in fretta che l’hacker sarebbe stato acchiappato prima che riuscisse a staccarsi dal suo computer. Questo sistema è più blindato del mainframe dell’FBI.”
“A proposito” disse Mercer rivolgendosi a Collins.
Collins lo anticipò. “Sì, ho telefonato. Non riesco a credere che lei abbia il numero diretto del direttore dell’FBI. Cazzo, che emozione. Ho parlato proprio con Dick Henna.”
“Cala, Mike, è un poliziotto esattamente come lo sei tu. Solo che ha un ufficio più grande e un titolo più altisonante del tuo. Ha detto che avrebbe chiamato la base di Elmendorf?”
“Sì, ha detto che l’ammiraglio Morrison ha contattato il generale Kelly, il rappresentante dell’Aeronautica agli Stati Generali, e ci hanno assicurato piena collaborazione.”
“E dai, Mercer, addirittura l’Aeronautica? Hai previsto lo scoppio della terza guerra mondiale?” commentò Lindstrom ironico.
“Addestramento dei boy scout, Andy. Estote parati!”
“Sentite” sbottò Mossey staccandosi dal computer, “qui è già un casino, e con voi che continuate a parlare è ancora peggio. Potreste lasciarmi lavorare in pace? E soprattutto il fumo delle vostre sigarette non mi aiuta di certo.”
“Certo, Ted” disse Lindstrom, intimidito dal tono perentorio di Mossey. Da quando era arrivato ad Alyeska il tecnico non era mai stato uno zuccherino, ma Lindstrom pensava che probabilmente Mossey era più in difficoltà di quanto volesse lasciar intendere. “Torniamo nel mio ufficio. Chiamaci se hai bisogno di qualcosa.”
“Bene” sospirò Mossey tornando allo schermo su cui scorrevano codici e stringhe mentre le sue dita rimanevano sospese sulla tastiera come quelle di un pianista che sta aspettando il segnale per cominciare a suonare.
Nell’ufficio di Lindstrom cominciò la lunga attesa.
“Cristo, rilassatevi” disse Lindstrom, vedendo l’ansia di Mercer. “Ne abbiamo parlato anche ieri. Eravamo tutti concordi nel pensare che se qualcuno volesse usare l’azoto liquido per interrompere il flusso di greggio, l’unico luogo adatto è il deposito delle attrezzature di Fairbanks, e quegli stronzi li abbiamo già beccati ieri sera.”
“Avevano delle bombole di azoto con loro? O bombole di acciaio di qualsiasi genere?” ribatté Mercer rabbuiato.
“No. Probabilmente erano entrati per individuare il punto più adatto in cui usare quella roba. Cazzo, quel deposito è grande almeno 15 chilometri quadrati ed è disseminato di edifici e di mucchi di materiale sparpagliato ovunque. Ci vogliono due ore solo per trovare i cessi.”
Lo sguardo silenzioso di Mercer lo zittì immediatamente. Mike Collins fece un cenno di approvazione a Mercer, un rassicurante gesto di solidarietà professionale.
Trascorsero alcuni minuti.
“La rete informatica” chiese Mercer, “in che misura controlla l’operatività dell’impianto?”
“Controlla tutto, che domande. Lo sai come funziona al giorno d’oggi. Se non hai il permesso del computer non puoi fare niente.”
“Sarebbe in grado di chiudere l’intero oleodotto?”
“Certo, da qui possiamo gestire in remoto tutto il sistema, ma non lo facciamo. Ci pensano le stazioni di pompaggio che sono autonome, monitorate ventiquattro ore su ventiquattro, e sono loro che hanno l’ultima parola su quello che succede in qualsiasi posizione. Se si verifica un problema, anche loro posso bloccare la linea.”
“Esiste un qualche comando per bypassarle automaticamente? Un modo che consenta al sistema di prevalere sulle stazioni di pompaggio, di escluderle e di operare autonomamente?”
“Non ti seguo.”
Mercer parlò lentamente e scandendo le parole in modo che non ci fossero dubbi su quello che stava dicendo. “Il computer può prendere il controllo di tutta la condotta del greggio?” chiese rivolto a Lindstrom.
Gli ci vollero alcuni secondi per rispondere e la sua risposta non gli piacque affatto. “Non lo so.”
Il telefono squillò e sia Collins che Lindstrom sobbalzarono. Lindstrom rispose, ascoltò per qualche secondo e quindi passò la cornetta al capo della sicurezza. Quindi si rivolse a Mercer, con le dita che cercavano nervosamente di accendere una sigaretta. Aveva gli occhi spalancati e la fronte madida di sudore, nonostante il freddo penetrante che invadeva tutto l’edificio. Collins parlò poco, qualche grugnito e qualche imprecazione. Quando riagganciò era pallido come un lenzuolo e gli tremavano le mani.
“Era Ken Basset della polizia di Stato. C’è stato un incidente. Tutti e due i furgoni che trasportavano gli uomini dalle stazioni di pompaggio numero cinque e sei al deposito per aumentarne la sicurezza sono andati fuori strada sulla Dalton Highway. Ci sono già due pattuglie sul posto, ma sembra che non ci siano sopravvissuti.”
“Quando è successo?” la voce di Mercer risuonò come una frustata.
“La polizia è appena arrivata sul posto, ma può darsi che i furgoni avessero sbandato già da un po’. A giudicare dal punto in cui sono usciti di strada e sapendo a che ora sono partiti dalle stazioni di pompaggio direi che sono passate almeno sei ore.”
Mercer sbirciò attraverso le veneziane appese davanti alla finestra dell’ufficio di Lindstrom. Era quasi il crepuscolo, e nel giro di poco sarebbe calata l’oscurità. La pioggia cadendo formava strisce d’argento sui vetri. “Dobbiamo andare là.”
“Sono quasi Ottocento chilometri a nord di qui.”
“E allora alziamo le chiappe invece di discutere su quanto è lontano” disse bruscamente Mercer. “Hai un elicottero che possa arrivarci?”
“Sì, ma…” Lindstrom era visibilmente spiazzato. Doveva gestire una crisi e non se ne rendeva conto. Mercer invece era in grado di muoversi agevolmente nel vuoto lasciato dalla sua titubanza.
“Mike, chiama quelle stazioni di pompaggio. Verifica che sia tutto a posto.”
“Si può vedere dal computer” puntualizzò Collins.
“Il computer è fuori uso, non te lo ricordi? E la maggior parte degli uomini che lavorano a quelle stazioni è stato chiamato a Fairbanks e adesso sono tutti morti. Ho bisogno che verifichi che gli uomini rimasti sono ancora vivi.”
Collins colse immediatamente il rischio che le tre situazioni apparentemente slegate fossero connesse. Si precipitò fuori dalla stanza per andare nel suo ufficio a telefonare.
“Andy, chiama il pilota e digli di avviare la procedura per un volo di emergenza che ci porti sulla Dalton Highway. Io vado dalla centralinista a telefonare a Elmendorf. Avremo bisogno di loro.” Mercer era già sulla porta.
“Cosa sta succedendo?” Lindstrom era visibilmente scosso.
“La terza guerra mondiale.”